Quando apriamo l’armadio e ci troviamo di fronte a file di magliette, pantaloni e giacche di cui ricordiamo a malapena l’acquisto, raramente ci fermiamo a pensare a cosa si nasconda dietro quei vestiti. La moda è da sempre un linguaggio universale, un modo per esprimere identità e appartenenza. Ma negli ultimi decenni, con l’avvento della fast fashion, questo linguaggio si è trasformato in un fenomeno globale dai contorni complessi: abiti prodotti in quantità enormi, venduti a prezzi bassissimi e destinati spesso a durare poco. Il risultato è un impatto ambientale e sociale che sta diventando sempre più difficile da ignorare.
Abouthat si occupa proprio di questo: guardare alla nostra vita di tutti i giorni con occhi diversi, senza moralismi e senza sensi di colpa, ma con informazioni chiare che ci aiutino a capire meglio le scelte che facciamo. La moda è uno dei settori più vicini alla nostra esperienza personale e forse anche uno dei più sorprendenti per quanto riguarda i suoi effetti sul pianeta.
L’acqua è uno degli elementi più utilizzati nella produzione tessile. Si calcola che per realizzare una singola maglietta di cotone servano circa 2700 litri di acqua, la stessa quantità che una persona beve in più di due anni. Questo dato, da solo, ci dà un’idea delle dimensioni del problema. Non stiamo parlando solo di grandi marchi o di passerelle internazionali, ma del semplice indumento che acquistiamo al centro commerciale sotto casa.
Il cotone è una fibra naturale e spesso percepita come sostenibile. In realtà, la sua coltivazione intensiva ha un impatto significativo perché richiede irrigazione abbondante e un uso esteso di pesticidi. A questo si aggiunge la fase di tintura e finissaggio, che comporta ulteriori consumi idrici e l’impiego di sostanze chimiche difficili da smaltire.
Il settore tessile è responsabile di circa il dieci per cento delle emissioni globali di gas serra, più di quanto emettano i voli aerei internazionali e il trasporto marittimo messi insieme. Gran parte di queste emissioni deriva dall’energia necessaria per coltivare le fibre, produrre i tessuti, far funzionare le fabbriche e trasportare i capi in tutto il mondo.
Ogni fase della filiera ha un costo climatico. La produzione di fibre sintetiche come il poliestere, che oggi rappresenta oltre il sessanta per cento dei tessuti usati, è legata al petrolio e quindi direttamente alle emissioni fossili. La manifattura in paesi dove l’energia proviene soprattutto da carbone e gas peggiora ulteriormente il bilancio. Poi ci sono i trasporti: un capo prodotto in Asia, distribuito in Europa e venduto in America ha un percorso che lascia dietro di sé un’impronta di carbonio significativa.
Uno dei paradossi della moda contemporanea è che nonostante produciamo più abiti che mai, continuiamo a sentirci come se non avessimo nulla da indossare. Negli ultimi vent’anni il numero di capi prodotti a livello globale è più che raddoppiato, mentre il tempo medio in cui un vestito viene usato si è dimezzato.
Questo significa che compriamo molto di più e indossiamo molto meno. Una tendenza favorita dal modello della fast fashion, che propone nuove collezioni ogni poche settimane e spinge i consumatori a considerare l’abbigliamento come un bene usa e getta. Il risultato è che gli armadi si riempiono, ma la durata effettiva di utilizzo dei capi si riduce drasticamente.
È difficile stabilire un numero preciso, ma diversi studi mostrano che la maggior parte delle persone utilizza regolarmente solo una piccola parte del proprio guardaroba, tra il venti e il trenta per cento. Questo significa che gran parte degli abiti rimane chiusa nei cassetti o appesa negli armadi, dimenticata.
Se guardiamo al bisogno reale, basterebbero poche decine di capi versatili per coprire la maggior parte delle occasioni quotidiane. Il resto è spesso legato ad acquisti impulsivi, a tendenze passeggere o a quella sensazione di novità che la moda ci trasmette. Questo non significa rinunciare al piacere di vestirsi o di seguire uno stile personale, ma prendere consapevolezza del fatto che la quantità non sempre corrisponde a benessere o utilità.
Ogni anno, nel mondo, finiscono in discarica o inceneritori circa novantadue milioni di tonnellate di rifiuti tessili. Molti dei vestiti che doniamo non vengono realmente riutilizzati: solo una parte arriva al mercato dell’usato, mentre una quota significativa finisce nei paesi in via di sviluppo, dove però crea spesso più problemi che soluzioni.
Il riciclo dei tessuti è ancora limitato perché le fibre sono difficili da separare e da trasformare in nuovo materiale di qualità. I vestiti composti da fibre miste, come poliestere e cotone insieme, sono quasi impossibili da riciclare con le tecnologie attuali. Di conseguenza, la maggior parte degli indumenti scartati non trova una seconda vita e diventa un rifiuto difficile da gestire.
La risposta è sì, ma con molte condizioni. Negli ultimi anni diversi marchi hanno avviato programmi di raccolta e riciclo, sviluppato fibre innovative e adottato certificazioni ambientali. Esistono tessuti derivati da alghe, funghi o scarti agricoli che promettono di ridurre l’impatto. Anche l’uso di energia rinnovabile nelle fabbriche e il miglioramento delle condizioni di lavoro nelle catene di produzione sono passi importanti.
Tuttavia, non basta innovare i materiali o i processi se la quantità di produzione resta così alta. La vera sfida non è solo rendere più green i singoli capi, ma ripensare l’intero modello di consumo. Una moda davvero sostenibile dovrebbe coniugare qualità, durata, riciclo e una riduzione della sovrapproduzione.
I consumatori hanno un ruolo significativo, anche se non sono gli unici responsabili. Ogni scelta di acquisto contribuisce a indirizzare il mercato. Comprare meno, scegliere meglio, preferire capi di qualità che durano di più, valutare l’usato o il noleggio sono pratiche che si stanno diffondendo lentamente.
Allo stesso tempo, non si tratta di eliminare il piacere legato alla moda. Vestirsi è espressione di sé, di creatività e di appartenenza culturale. Ma comprendere il peso delle nostre scelte ci permette di trovare un equilibrio: non rinunciare allo stile, ma renderlo compatibile con il futuro del pianeta.
L’armadio del futuro potrebbe essere più leggero e al tempo stesso più ricco di valore. Un guardaroba fatto di capi di qualità, scelti con cura, prodotti in modo etico e magari condivisi grazie a piattaforme di scambio e noleggio. Un armadio dove ogni indumento abbia una storia e una funzione, invece di accumularsi nell’ombra.
La moda è movimento, cambiamento, creatività. Non deve trasformarsi in colpa o rinuncia, ma in consapevolezza. Capire quanto inquina e quanto produce ci aiuta a immaginare un sistema più equilibrato, dove l’eleganza non si misura solo nello stile, ma anche nella capacità di rispettare il mondo che ci circonda.
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