In un’epoca in cui il cambiamento climatico sembra una sfida insormontabile, esistono soluzioni silenziose, antiche e sorprendenti, capaci di cambiare le regole del gioco. Una di queste si chiama biochar.
Poco noto al grande pubblico, questo carbone vegetale è al centro di studi, innovazioni e pratiche agricole rigenerative che promettono di fertilizzare i suoli e intrappolare CO₂ per secoli. Un alleato oscuro, nel senso letterale del termine, ma dal potenziale luminoso.
Il biochar è un carbone poroso prodotto dalla pirolisi, un processo di riscaldamento della biomassa (come legna, paglia, scarti agricoli o organici) in assenza di ossigeno. A differenza della combustione tradizionale, la pirolisi non rilascia anidride carbonica nell’atmosfera, ma la trattiene nella struttura stessa del biochar.
Una volta ottenuto, il biochar può essere aggiunto al terreno, migliorandone la struttura, la ritenzione idrica e la capacità di ospitare microrganismi benefici. Ma il suo impatto più potente è forse un altro: immagazzina carbonio stabile nel suolo per centinaia – se non migliaia – di anni, contribuendo concretamente alla riduzione della CO₂ atmosferica.
L’uso del biochar non è una scoperta recente. Nella foresta amazzonica, i popoli indigeni praticavano da secoli una tecnica che portava alla creazione di un terreno nero, ricco e duraturo chiamato "terra preta". Analizzando questi suoli, gli scienziati hanno scoperto alte concentrazioni di carbone vegetale, risalenti anche a 2.000 anni fa.
La “scoperta” moderna del biochar è quindi un ritorno alle radici, un esempio di come la sapienza tradizionale possa ispirare soluzioni concrete per il presente.
Le applicazioni del biochar sono molteplici e trasversali:
L’impatto positivo del biochar è duplice:
In questo senso, è considerato una “tecnologia a emissioni negative”, ovvero una delle poche soluzioni che non si limita a ridurre i danni, ma ripara attivamente il danno già fatto.
Come tutte le tecnologie, il biochar non è esente da sfide. La sua efficacia dipende da vari fattori: tipo di biomassa usata, condizioni di produzione, caratteristiche del suolo in cui viene applicato.
C’è anche chi teme che una domanda crescente possa portare a una produzione industriale poco controllata, con impatti negativi su foreste e colture.
La chiave, come spesso accade, è l’equilibrio: il biochar funziona se prodotto localmente, in modo etico e integrato in un modello agricolo sostenibile.
Il motivo principale è la mancanza di conoscenza e investimenti. Il biochar, nonostante il suo potenziale, non è ancora entrato nelle logiche su larga scala dell’agroindustria.
Eppure, numerose startup, aziende agricole rigenerative e comunità locali lo stanno riscoprendo come strumento strategico per l’economia circolare.
In Europa esistono già iniziative pilota, come quelle supportate dal programma Horizon dell’Unione Europea. Anche in Italia, alcune aziende stanno sperimentando la produzione di biochar a partire da potature, vinacce o gusci di frutta.
Pensare al carbone come a un nemico del clima è giusto... ma non sempre. Il biochar è una di quelle eccezioni che sfidano le nostre convinzioni. Un carbone buono, capace di rigenerare il suolo, ridurre le emissioni, restituire valore agli scarti.
Forse non sarà da solo la soluzione definitiva alla crisi climatica, ma è sicuramente una delle armi più promettenti che abbiamo a disposizione – e che, incredibilmente, era già sotto i piedi dei nostri antenati.
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