Taranto, fine giugno 2025. È passato oltre un mese dal devastante incendio che ha colpito lo stabilimento ex Ilva, oggi gestito da Acciaierie d’Italia. Abbiamo scelto di non scrivere a caldo, o quanto troppo spesso il caso Taranto viene affrontato con parole frettolose e reazioni istituzionali di facciata. Abbiamo aspettato per comprendere meglio gli sviluppi, raccogliere testimonianze, analizzare i dati e osservare le risposte e le mancate risposte delle istituzioni. Perché ciò che è successo il 7 maggio non è un incidente isolato, ma l’ennesimo episodio di una lunga crisi industriale, ambientale e sociale che la città subisce da decenni.
Alle ore 11:31 del 7 maggio, una tubiera n.11 nel campo di colata dell’Altoforno 1 ha ceduto, causando la fuoriuscita di gas combustibili (soprattutto monossido di carbonio e idrocarburi). Il contatto con le alte temperature ha innescato un incendio di vaste proporzioni, con proiezione di ghisa incandescente e il coinvolgimento di altre strutture circostanti.
Questi eventi, noti nel settore siderurgico come "breakout accidents", sono tecnicamente prevenibili. Esistono dispositivi come sensori termici intelligenti, manutenzioni periodiche e sistemi di allerta automatizzati. La loro mancata attivazione solleva interrogativi sulla gestione della sicurezza interna e sulle priorità aziendali.
Il danno immediato è stato doppio: da una parte l’incendio ha provocato ustioni lievi e contusioni a diversi operai; dall’altra, ha scatenato una nuova crisi ambientale. Densi fumi tossici, visibili da tutta la città, hanno innalzato la concentrazione di PM10, PM2.5 e idrocarburi policiclici aromatici (IPA). Il coinvolgimento di materiali plastici e di un camion ha peggiorato la qualità dell’aria.
L'incendio ha portato al sequestro probatorio dell'Altoforno 1 da parte della Procura, senza facoltà d’uso. Di fatto, la produzione si è arrestata, paralizzando lo stabilimento. La situazione si è aggravata con l’annuncio della cassa integrazione straordinaria per 3.926 lavoratori, di cui 3.538 solo a Taranto.
Oltre 3.900 famiglie si trovano ora in difficoltà economica. Ma non si tratta solo di numeri: dietro ogni cifra c’è un volto. La dipendenza occupazionale dall’inquinamento continua a essere una trappola sociale. L’intero indotto locale — trasporti, cooperative, manutenzioni, microimprese — è travolto da un effetto domino potenzialmente irreversibile.
Il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, ha pubblicamente accusato la Procura di Taranto di aver ritardato l’autorizzazione a interventi tecnici che avrebbero potuto prevenire l’incendio. La Procura ha smentito categoricamente, dichiarando di aver autorizzato gli interventi in tempi utili e segnalando gravi violazioni delle normative sulla sicurezza da mesi. Il solito copione: rimpallo di responsabilità tra istituzioni, mentre la città continua a pagare il prezzo.
Per comprendere davvero l’incendio del 7 maggio e i rischi legati all’impianto siderurgico di Taranto, è utile conoscere alcuni termini tecnici chiave. Questo breve glossario aiuta a orientarsi tra concetti complessi come “breakout accident” o PM10, rendendo più chiaro cosa è accaduto e perché certi rischi erano evitabili.
Breakout accident: Incidente ad alto rischio che avviene quando la ghisa fusa fuoriesce in modo incontrollato da una tubiera o crogiolo, generando incendi, esplosioni e rischio per gli operatori. È prevenibile con tecnologie moderne.
Campo di colata: Area dell’altoforno dove la ghisa liquida viene fatta defluire e raccolta. È una delle zone più calde e pericolose dell’impianto, con temperature fino a 1.400 °C.
PM10 e PM2.5: Polveri sottili di diametro inferiore a 10 e 2.5 micrometri. Possono penetrare nei polmoni (PM10) e nel sangue (PM2.5), contribuendo a malattie respiratorie e cardiovascolari.
IPA (idrocarburi policiclici aromatici): Composti chimici derivanti dalla combustione incompleta di materiali organici. Alcuni IPA sono classificati come cancerogeni. Si trovano spesso nel fumo nero industriale.
Cassa integrazione straordinaria (CIGS): Strumento usato in situazioni aziendali di crisi. Consente di sospendere temporaneamente i lavoratori dal servizio, garantendo loro un’indennità pagata dallo Stato.
A fine maggio, si è tornato a parlare di un possibile ingresso di Baku Steel Company, gruppo siderurgico con sede in Azerbaigian, come nuovo partner o acquirente per salvare lo stabilimento. Tuttavia, al 26 giugno 2025, la trattativa risulta congelata. Nessun passo concreto, solo voci e indiscrezioni. Il governo italiano resta diviso sulla possibilità di cedere quote strategiche. La città resta sospesa.
La Fiom-Cgil ha alzato il tono: “Non accetteremo cassa integrazione senza prospettive”, ha dichiarato in un comunicato, lanciando mobilitazioni nazionali. Anche i cittadini organizzati — in particolare la piattaforma #TarantoLibera — hanno rilanciato la loro battaglia con un dossier fotografico sull’incendio e nuove testimonianze dal quartiere Tamburi.
Le richieste principali sono:
Sì. Taranto è ancora classificata come Sito di Interesse Nazionale (SIN), cioè tra le aree più contaminate d’Italia. La bonifica ambientale — avviata teoricamente da oltre dieci anni — è ancora incompleta e inadeguata. Il quartiere Tamburi, situato a ridosso dello stabilimento, continua a registrare tassi anomali di malattie oncologiche e respiratorie, come confermato dai dati epidemiologici di ARPA Puglia e ISPRA.
L’incendio del 7 maggio non è stato un evento casuale o imprevedibile, ma la conseguenza logica di anni di omissioni, scelte politiche deboli e assenza di visione industriale. Taranto continua a essere un laboratorio tossico, dove si sperimenta la convivenza impossibile tra industria pesante e diritto alla salute.
Ma qualcosa sta cambiando. La consapevolezza collettiva è cresciuta, la mobilitazione è più rapida, la documentazione più precisa. Siti come AboutHat.it, reti di giornalismo indipendente ambientale e progetti come Veraleaks stanno creando nuovi spazi di verità.
Serve ora una narrazione diversa: una che parli di riconversione ecologica, bonifiche reali, giustizia ambientale riparativa e progettualità comunitaria. Taranto non deve più scegliere tra morte o lavoro. Taranto chiede futuro.
Fonti: