Nei reparti ortofrutta dei supermercati europei, i colori sembrano usciti da un catalogo: mele lucide e tonde, zucchine dritte, carote lisce, fragole tutte uguali. È un’estetica rassicurante, costruita per dare ai consumatori l’idea di qualità e sicurezza. Ma dietro questa perfezione apparente c’è un sistema di standard estetici rigidi, che impone parametri minuziosi su forma, colore e dimensioni. Un sistema che ha un impatto enorme: tonnellate di cibo perfettamente commestibile vengono scartate ogni anno solo perché non rientrano nei canoni visivi stabiliti.
Quello che per il consumatore è invisibile è invece una delle principali fonti di spreco alimentare nella filiera europea. Per capire quanto questa “burocrazia della bellezza” pesi sull’ambiente e sull’economia, serve guardare a come funzionano davvero gli standard e quali sono le regole attualmente in vigore.
Gli standard estetici per frutta e verdura non sono un’invenzione recente. Furono introdotti per la prima volta a livello europeo negli anni Settanta, quando la Comunità Economica Europea cercava di armonizzare i mercati agricoli interni. L’obiettivo era rendere i prodotti ortofrutticoli più facilmente scambiabili tra Paesi, evitando che ogni Stato avesse requisiti diversi e incompatibili.
Oggi questi criteri sono regolati a livello europeo da norme aggiornate nel tempo, l’ultima delle quali è il Regolamento Delegato (UE) 2023/2429, entrato in vigore il 1° gennaio 2025. Questo testo ha rivisto e sostituito i precedenti standard di commercializzazione per dieci tra i principali prodotti freschi: mele, agrumi, fragole, pere, pesche e nettarine, kiwi, peperoni, lattughe, uva da tavola e banane.
Il regolamento stabilisce requisiti minimi di forma, dimensione, grado di maturazione, assenza di difetti e presentazione. L’idea di fondo è garantire una qualità uniforme all’interno del mercato unico e facilitare i controlli doganali e fitosanitari. Ma accanto a questo scopo funzionale si è consolidato un vero e proprio modello estetico: i prodotti devono non solo essere buoni e sicuri, ma anche belli, lucidi e omogenei.
Gli effetti concreti di questi standard iniziano già nei campi. Se un agricoltore raccoglie mele troppo piccole o zucchine storte, sa che difficilmente verranno accettate dagli intermediari e dalla grande distribuzione organizzata. In molti casi non vale nemmeno la pena raccoglierle, e così vengono lasciate a marcire sul terreno.
Quando la raccolta avviene comunque, una parte di questi prodotti “fuori standard” viene destinata all’industria di trasformazione, per diventare succhi, conserve o passate. Un’altra quota può finire nei mangimi animali. Ma una frazione rilevante viene eliminata del tutto, smaltita come rifiuto organico o distrutta.
Secondo stime della FAO e della Commissione Europea, fino al 30% della frutta e verdura coltivata nell’UE non arriva mai al mercato proprio per ragioni estetiche. In Italia, l’Osservatorio Food Sustainability del Politecnico di Milano ha calcolato che questo fenomeno pesa per oltre 1,5 milioni di tonnellate l’anno solo nel comparto ortofrutticolo. È una perdita enorme, soprattutto considerando che parliamo di prodotti sani e commestibili sotto ogni aspetto.
Sebbene il quadro normativo europeo sia vincolante, non è l’unico responsabile di questa selezione. Anzi, spesso è la grande distribuzione organizzata a imporre criteri ancora più rigidi attraverso i propri capitolati interni.
I supermercati hanno costruito negli anni un’estetica commerciale in cui l’uniformità è sinonimo di qualità. Temono che esporre prodotti “brutti ma buoni” possa confondere o scoraggiare i clienti, danneggiando l’immagine del marchio. Così impongono ai fornitori parametri minuziosi: diametro dei pomodori, grado di curvatura delle zucchine, tonalità delle mele. Prodotti che non li rispettano vengono rifiutati e restano fuori dalla catena di distribuzione.
Questa logica ha un effetto culturale profondo: i consumatori hanno imparato ad associare la bellezza esteriore con la bontà, anche se non esiste alcun legame reale tra aspetto e valore nutrizionale. Il problema, ormai, non è tecnico ma percettivo.
Con il Regolamento 2023/2429, l’UE ha cercato di rendere più flessibile il sistema, prevedendo che i prodotti che non soddisfano i requisiti estetici possano comunque essere commercializzati se sicuri e commestibili, a patto che siano etichettati come “non standard” o destinati ad altri usi. È una novità importante, perché legittima esplicitamente la possibilità di vendere frutta e verdura imperfette, aprendo uno spazio per iniziative alternative nella filiera.
Resta però un problema: queste norme stabiliscono ciò che è permesso, ma non obbligano i distributori a ritirare o vendere i prodotti imperfetti. La scelta resta volontaria. E in Italia, la Legge 166/2016 (cosiddetta Legge Gadda), pur avendo semplificato la donazione di eccedenze alimentari da parte di supermercati e aziende, riguarda solo i prodotti già acquistati dalla GDO, non quelli scartati prima per motivi estetici.
In pratica, oggi non esiste nel nostro Paese una norma che vieti o limiti lo scarto preventivo per motivi estetici. Chi produce continua a subire perdite economiche e chi consuma continua a vedere solo la parte più “bella” del raccolto.
Questa selezione silenziosa ha costi ambientali pesantissimi.
Ogni frutto che non arriva al mercato rappresenta acqua, fertilizzanti, energia e lavoro sprecati. Ogni tonnellata eliminata equivale a emissioni di CO₂ inutili. E mentre milioni di tonnellate di cibo vengono rifiutate, secondo Eurostat oltre 30 milioni di cittadini europei vivono in insicurezza alimentare.
Ma c’è anche un costo economico. Gli agricoltori devono accettare rese commerciali molto più basse di quelle reali, perché parte del raccolto non sarà pagata. Questo aumenta la pressione sui prezzi e riduce i margini, contribuendo alla crisi cronica del settore primario.
E poi c’è un costo culturale: un sistema che normalizza lo spreco per ragioni estetiche allontana i cittadini dalla realtà agricola, alimentando l’idea che la natura debba essere perfetta, uniforme e priva di difetti. È una narrazione che non solo non è vera, ma è dannosa.
Negli ultimi anni, però, stanno nascendo segnali di cambiamento. In diversi Paesi europei, catene come Intermarché in Francia e Coop in Danimarca hanno lanciato linee di prodotti “brutti ma buoni”, venduti a prezzo scontato. In Italia, realtà come Bella Dentro raccolgono frutta e verdura imperfette direttamente dai produttori e le rivendono o le trasformano in succhi e conserve, dimostrando che un’altra filiera è possibile.
Questi esempi non sono solo buone pratiche, ma prove che la domanda esiste: i consumatori sono disposti ad acquistare prodotti non perfetti se vengono informati correttamente. Serve però un sostegno politico e normativo perché queste esperienze diventino sistema e non restino eccezioni di nicchia.
Mettere in discussione gli standard estetici non significa abbassare la qualità, ma ridefinirla. Significa spostare l’attenzione da “bello e uniforme” a “sano, sicuro e sostenibile”.
Ogni mela imperfetta venduta è una vittoria per il clima, per l’economia agricola e per l’equità sociale.
L’UE ha aperto una porta con il Regolamento 2023/2429, ma perché il cambiamento sia reale serviranno politiche nazionali più ambiziose, incentivi mirati per i produttori, obblighi minimi per la GDO e campagne culturali rivolte ai consumatori.
La sostenibilità non comincia con grandi opere, ma da gesti quotidiani: anche accettare una mela storta può diventare un atto politico.
Fonti: