Negli ultimi anni, il femminismo è diventato parte integrante della comunicazione commerciale e politica. Sui social media, nelle pubblicità, negli spot motivazionali e persino nei discorsi istituzionali, si moltiplicano le narrazioni sull’empowerment femminile, sull’indipendenza e sulla forza delle donne. Tuttavia, dietro questa patina brillante si nasconde spesso una strategia comunicativa ben più cinica: quella del woman washing.
Il woman washing è una forma di appropriazione comunicativa dei valori femministi, finalizzata al miglioramento dell’immagine pubblica di un brand, di un’azienda o di un personaggio politico. A differenza di un reale impegno per la parità di genere, questa pratica si limita a utilizzare slogan, simboli e linguaggi del femminismo senza mettere in discussione le strutture di potere o adottare politiche concrete. È una variante del più noto greenwashing, con la differenza che a essere strumentalizzati non sono i temi ambientali, ma quelli legati alla giustizia sociale e all’equità tra i generi.
Molte aziende celebrano la Giornata Internazionale della Donna o l’8 marzo con iniziative simboliche, condividendo frasi di ispirazione o immagini potenti. Ma dietro queste narrazioni, le condizioni lavorative delle dipendenti restano spesso precarie, le posizioni dirigenziali maschili predominanti e le disparità salariali persistenti. Così, il femminismo si riduce a una questione estetica, trasformandosi in un semplice strumento di branding. Viene svuotato del suo significato politico, privato della sua forza trasformativa e trasformato in una moda, perdendo il legame con le lotte che ne costituiscono le fondamenta.
Alcuni esempi emblematici mostrano quanto questo fenomeno sia radicato. Diverse multinazionali lanciano campagne che esaltano le donne e la loro forza, rivolgendosi a un pubblico occidentale sensibile all’inclusione di genere, mentre allo stesso tempo impiegano in altri paesi manodopera femminile sfruttata, sottopagata e priva di tutele. In altri casi, celebrità vengono celebrate come simboli di rottura e progresso, ma le operazioni che le coinvolgono si rivelano poco più che strumenti promozionali. Il recente viaggio nello spazio della popstar Katy Perry ne è un esempio: salutata da molti come una conquista femminile, è stata anche criticata da chi ha visto in quell’evento una mossa di marketing ben orchestrata, più utile a potenziare l’immagine di alcuni gruppi industriali che a promuovere reali opportunità per le donne nel settore spaziale. Questo caso, che unisce elementi di woman washing a logiche di spettacolarizzazione tecnologica, potrebbe essere descritto anche come una forma emergente di space washing.
Il woman washing non è solo una questione di coerenza etica, ma rappresenta anche un ostacolo per la sostenibilità sociale. Parlare di uguaglianza senza agire concretamente significa ostacolare i reali processi di cambiamento. In un’epoca in cui si parla sempre più di sviluppo sostenibile, è fondamentale che i valori legati all’inclusione, alla giustizia di genere e al rispetto dei diritti non vengano ridotti a strumenti pubblicitari. La sostenibilità, per essere autentica, deve comprendere l’aspetto sociale tanto quanto quello ambientale e tecnologico.
Per smascherare il woman washing serve spirito critico e consapevolezza. Non basta ascoltare le parole: è necessario osservare i comportamenti, analizzare le politiche interne alle aziende, capire se ci sono reali cambiamenti strutturali. Solo così si può distinguere tra chi comunica il femminismo per convinzione e chi lo fa per convenienza. In un mondo in cui l’immagine vale quanto, se non più, della sostanza, la capacità di leggere tra le righe diventa fondamentale.
Il femminismo sostenibile non si limita a slogan e manifesti. Si costruisce con scelte quotidiane, con azioni coerenti, con ascolto e responsabilità. Che si tratti di politiche aziendali, di rappresentanza nei media o di accesso equo all’innovazione e alla scienza, serve un impegno concreto che metta al centro la voce delle donne e la trasformazione delle strutture esistenti. Celebrare le conquiste è importante, ma è ancora più importante chiedersi chi viene incluso davvero, chi resta escluso e chi trae vantaggio dalle narrazioni dominanti.
Fonti:
The Vibes – From fashion to feminism washing: How brands are appropriating the feminist cause - https://www.thevibes.com/articles/lifestyles/20131/from-fashion-to-feminism-washing-how-brands-are-appropriating-the-feminist-cause
Save Your Wardrobe – Selling Women the Green Dream: Femwashing, Ultra Fast-Fashion and the Radical Act of Slowing Down - https://www.saveyourwardrobe.com/blog/selling-women-the-green-dream-femwashing-ultra-fast-fashion
Claremont Graduate University – Avoid Gender Washing: Making Sense of Marketing to Women by Understanding the Three Waves of Feminism - https://www.cgu.edu/news/2014/06/avoid-gender-washing-making-sense-of-marketing-to-women-by-understanding-the-three-waves-of-feminism