E se guardassimo oltre? Oltre la superficie calma del mare, oltre i banchi del supermercato, oltre le etichette che promettono responsabilità. Oltre, lì dove comincia la realtà di quello che mangiamo. Una realtà che spesso rimane nascosta, dietro una scelta veloce o dietro l'apparente semplicità di un prodotto. Ogni volta che prendiamo una decisione d'acquisto siamo parte di un ciclo più ampio, che coinvolge l’ambiente, gli animali e, inevitabilmente, anche noi.
Nell'articolo precedente abbiamo esplorato le potenzialità dell'economia blu, una visione capace di unire sviluppo economico e tutela dell'ambiente marino. Tra i suoi pilastri c'è anche la pesca sostenibile, quella che promette di garantire approvvigionamento alimentare senza esaurire le risorse marine. Un'idea forte, giusta, necessaria. Ma è davvero possibile? O è un'illusione rassicurante?
La pesca sostenibile esiste. E ci sono iniziative virtuose che lo dimostrano, come quella attiva a Torre Guaceto, in Puglia, dove una riserva marina protetta ha saputo creare un modello replicabile di pesca regolamentata, con impatti ridotti e maggiore valorizzazione del pescato.
Queste esperienze sono fondamentali e vanno valorizzate, non sminuite. Ma, per quanto rappresentino modelli ispiranti, ci portano anche a riflettere su un punto più profondo: possiamo davvero parlare di pesca sostenibile quando il nostro sistema alimentare si fonda sul consumo massiccio e continuo di prodotti ittici?
Il documentario "Seaspiracy",disponibile su Netflix, solleva interrogativi scomodi e fondamentali. Mostra un mondo in cui l'industria ittica globale agisce spesso in modo opaco, dannoso, distruttivo: sovra pesca, violazioni dei diritti umani, impatti devastanti sugli ecosistemi. Racconta anche realtà estreme, come in Giappone, dove alcuni pescatori abbattono i delfini per evitare che competano con loro per il pesce. Scene dure, ma reali. E soprattutto, sintomatiche di un sistema che riduce la vita animale a danno collaterale di una filiera alimentare che non si interroga più sul senso del proprio operato.
Il vero problema, allora, potrebbe non essere "come" peschiamo, ma quanto e per chi. L'essere umano consuma pesce in quantità spropositate rispetto a quanto gli oceani riescano a rigenerare. Anche modelli come la pesca artigianale, o forme di autosufficienza alimentare, se applicati su larga scala, rischiano di diventare non sostenibili. Perché infondo, è improbabile che l'intera popolazione mondiale si trasformi in piccoli "homo habilis" pronti a procacciarsi cibo in modo responsabile.
Certo, possiamo (e dobbiamo)ripensare le filiere. Ma dobbiamo anche fare i conti con un paradosso: ogni volta che scegliamo un alimento di origine animale, compiamo un atto che, per sua natura, difficilmente sarà sostenibile. L'allevamento e la pesca industriale sono tra i maggiori responsabili di emissioni, perdita di biodiversità e inquinamento.
Ma c'è un altro livello, forse il più profondo, di questa riflessione: siamo davvero disposti a mangiare ciò che non vogliamo vedere? E con "vedere" non intendiamo solo le immagini cruente di reti piene, di sangue o di animali sofferenti. Il punto è più sottile e più scomodo. Significa vedere il processo, le conseguenze, il prezzo (non economico) di quello che consumiamo.
Ogni volta che compriamo cibo di scarsa qualità, non sostenibile, pieno di conservanti, antibiotici, impoverito nel valore nutrizionale, stiamo facendo un danno non solo all'ambiente — ma prima di tutto a noi stessi. Alimentarsi male è un atto quotidiano di disattenzione verso la propria salute, oltre che verso il pianeta. Eppure è spesso un atto inconsapevole, nascosto dietro l'etichetta, il prezzo conveniente, o l'abitudine.
Ci sono Paesi in cui questa consapevolezza è favorita da una maggiore trasparenza. In Germania, per esempio — dove il tasso di vegetariani è tra i più alti d'Europa (fonte) — è molto più comune vedere l'origine, la filiera e perfino le condizioni di allevamento o pesca direttamente sui prodotti. La trasparenza educa, anche senza bisogno di shock. Se questo approccio fosse più diffuso, se davvero ci fosse un sistema che ci mostrasse il "dietro le quinte" di ciò che portiamo in tavola, probabilmente le scelte cambierebbero.
La consapevolezza alimentare non è solo una moda, è un atto politico. Un modo per influenzare la produzione con le nostre scelte quotidiane. E forse, per riportare al centro non solo cosa mangiamo, ma perché lo facciamo. Guardare in faccia la realtà del cibo non significa rinunciare al piacere di mangiare. Significa solo scegliere con più cura.