La notizia della morte di Giorgio Armani, avvenuta a 91 anni il 4 settembre 2025, ha colpito profondamente il mondo della moda e non solo. Considerato un’icona dello stile italiano, soprannominato “Re Giorgio”, Armani ha rivoluzionato il modo di vestire intere generazioni con linee sobrie, eleganti e senza tempo. Ma accanto al mito dell’eleganza, resta aperta una domanda: quale impatto sostenibile lascia la sua maison e come si inserisce il suo percorso nel dibattito globale sulla moda etica?
Giorgio Armani è stato molto più di uno stilista: ha incarnato l’idea stessa di eleganza essenziale, lontana dagli eccessi. Nato a Piacenza nel 1934, ha fondato il suo impero negli anni Settanta, conquistando Hollywood e i mercati internazionali. La sua estetica, basata su tagli puliti e colori neutri, ha saputo interpretare i tempi proponendo uno stile “per tutti”, senza mai scadere nel fast fashion. Questo approccio è già di per sé un gesto sostenibile, perché ha promosso capi pensati per durare nel tempo e non per essere sostituiti a ogni stagione.
Negli ultimi anni il Gruppo Armani ha adottato una strategia ambientale e sociale più strutturata, fondata sui tre pilastri “People, Planet, Prosperity”. Alcuni esempi concreti includono:
Queste iniziative dimostrano che Armani non ha ignorato le pressioni del mercato e della società verso una moda più responsabile.
Una delle frasi celebri di Giorgio Armani è stata: “L’eleganza non è farsi notare, ma farsi ricordare”. In questa filosofia si ritrova anche un’idea di moda più lenta, lontana dal consumismo compulsivo. Armani ha più volte criticato il sistema che impone continue collezioni e sconti, preferendo abiti destinati a durare. Questo approccio si lega ai principi della slow fashion, movimento che contrasta la cultura dell’usa e getta tipica di molte catene globali.
Tuttavia, la domanda resta: quanto questa visione si è tradotta in azioni concrete e strutturali? In parte sì, ma non sempre con la trasparenza che i consumatori oggi pretendono.
Accanto agli aspetti positivi, non mancano ombre. Nel 2014 Greenpeace denunciò la presenza di sostanze tossiche nei tessuti di diversi brand, inclusi quelli Armani, spingendo l’azienda a un ripensamento delle proprie filiere. Più recentemente, nel luglio 2025, l’Autorità Antitrust italiana ha multato il gruppo per 3,5 milioni di euro per pratiche commerciali scorrette: in alcune produzioni in subappalto, soprattutto nel settore pelletteria, sono emerse condizioni lavorative non in linea con gli standard dichiarati.
Queste criticità hanno sollevato dubbi sulla coerenza tra le dichiarazioni di responsabilità e la realtà delle catene di fornitura. Un tema che resta cruciale per tutta l’industria della moda, non solo per Armani.
L’opinione pubblica resta divisa. Da un lato, Armani è visto come un maestro dello stile sobrio e come uno dei pochi a resistere alla logica della moda usa e getta. Dall’altro, le indagini e i ranking internazionali hanno spesso collocato il brand in posizioni deboli in materia di trasparenza e diritti dei lavoratori.
Negli ultimi anni, con l’apertura della piattaforma Armani/Values, il gruppo ha provato a raccontare meglio il proprio impegno, anche attraverso strumenti digitali come i QR code nei capi, che permettono al cliente di accedere a informazioni sulla tracciabilità. Una scelta che risponde alla crescente richiesta di trasparenza.
La morte di Giorgio Armani apre inevitabilmente un dibattito: quale direzione prenderà il suo gruppo, ora che il fondatore non c’è più? La lezione più importante che lascia è forse quella della durabilità. Vestirsi bene non significa consumare di più, ma scegliere capi di qualità, curarli e farli vivere a lungo.
Al tempo stesso, il futuro della maison dipenderà dalla capacità di trasformare questa filosofia in pratiche ancora più concrete, rafforzando la filiera, garantendo diritti e accelerando sulla decarbonizzazione. Solo così l’eredità di Armani potrà essere anche un’eredità di sostenibilità autentica.
Giorgio Armani sarà ricordato come un gigante della moda, capace di definire un’estetica che ha fatto scuola nel mondo. Il suo rapporto con la sostenibilità rimane complesso: ha portato avanti progetti di grande valore sociale e ambientale, ma ha anche lasciato zone d’ombra non risolte.
Oggi la sua scomparsa è l’occasione per celebrare il mito, ma anche per riflettere su quanto la moda italiana – e globale – abbia ancora da fare per coniugare bellezza, business e rispetto per il pianeta.
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