
Trasformare l’anidride carbonica in un abito. È l’idea quasi poetica, ma concretissima, che guida la missione di Rubi Laboratories, una startup californiana nata per ribaltare la logica della produzione tessile: invece di emettere CO₂ nell’atmosfera, le fabbriche potrebbero usarla come materia prima per creare nuovi tessuti. L’azienda promette un processo a impatto ambientale negativo, cioè capace non solo di non inquinare, ma addirittura di catturare più carbonio di quanto ne emetta. Il risultato è un tessuto naturale, biodegradabile e completamente tracciabile, che nasce letteralmente dall’aria.
Ma come si può davvero realizzare qualcosa di così ambizioso? E quanto è vicino alla realtà quotidiana della moda?
Alla base della tecnologia di Rubi c’è un principio tanto semplice quanto rivoluzionario: utilizzare la CO₂ industriale, quella che normalmente finisce in atmosfera, come punto di partenza per creare cellulosa, il materiale da cui nascono fibre e tessuti naturali. Le emissioni vengono convogliate in un reattore speciale, dove entrano in contatto con un insieme di enzimi altamente selezionati.

A differenza di molti processi biotecnologici che impiegano microorganismi vivi, Rubi usa un sistema “cell-free”, cioè privo di cellule. Questo significa che gli enzimi agiscono in modo diretto, senza la necessità di mantenere in vita un organismo, come accade nei processi di fermentazione. Tutto il carbonio catturato dalla CO₂ viene quindi destinato interamente al prodotto finale. Attraverso una serie di reazioni chimiche naturali e controllate, il gas serra viene trasformato in catene di glucosio e successivamente in cellulosa pura.
Una volta ottenuta, la cellulosa viene lavorata come nella filiera tradizionale: sciolta, filata e poi tessuta in un materiale che ha l’aspetto, la resistenza e la morbidezza dei tessuti cellulosici già in commercio, come la viscosa o il cotone rigenerato. Ma con una differenza fondamentale: non richiede terra, non consuma acqua e non abbatte foreste. È una produzione potenzialmente infinita, alimentata da ciò che oggi consideriamo uno scarto.
Il cuore tecnologico di Rubi sta nella biochimica applicata all’industria dei materiali. Gli enzimi utilizzati operano in cascata, riproducendo in laboratorio i processi che nelle piante avvengono naturalmente attraverso la fotosintesi. Solo che qui la luce solare non serve, perché il sistema è progettato per imitare la parte finale del ciclo fotosintetico: la fissazione del carbonio. In pratica, la CO₂ entra e viene trasformata direttamente in molecole organiche solide.
Questo approccio ha permesso a Rubi di ottenere un finanziamento significativo dalla National Science Foundation statunitense per la sua piattaforma “carbon-to-cellulose”. L’obiettivo del progetto è rendere stabile e scalabile la reazione enzimatica, migliorando la durata degli enzimi, la resa della cellulosa e l’efficienza energetica complessiva.
Parallelamente, l’azienda ha avviato collaborazioni con grandi marchi della moda come Walmart e Ganni, che hanno sperimentato i primi capi realizzati con fibre derivate dalla CO₂. Questi prototipi servono a dimostrare che la tecnologia può integrarsi nei processi tessili esistenti senza richiedere un ripensamento radicale delle filiere. Il tessuto Rubi, infatti, può essere tinto, cucito e lavato come qualsiasi altro materiale, ma con un impatto ambientale praticamente nullo.
Il settore tessile è uno dei più inquinanti al mondo: consuma enormi quantità d’acqua, occupa milioni di ettari di terreno agricolo e contribuisce alle emissioni di gas serra più di quanto si pensi. Ogni anno vengono prodotte oltre 100 miliardi di unità di abbigliamento, molte delle quali derivano da fibre sintetiche basate su combustibili fossili o da fibre naturali che richiedono intensive risorse idriche.
Rubi propone un’alternativa che agisce proprio sul cuore di questo problema. Non solo riutilizza la CO₂, ma elimina completamente la necessità di coltivare piante o processare legno per ottenere cellulosa. In questo modo si riducono la deforestazione, il consumo idrico e la dipendenza da materie prime agricole. Inoltre, poiché la cellulosa Rubi è biodegradabile, i tessuti non rilasciano microplastiche né residui persistenti nei mari o nei suoli.
Un altro elemento interessante è l’approccio “carbon-negative”: per ogni chilo di tessuto prodotto, la quantità di CO₂ rimossa dall’atmosfera è superiore a quella eventualmente emessa. In un’ottica di economia circolare, è un passo verso un modello industriale che non si limita a ridurre l’impatto, ma che potenzialmente lo ribalta.
Nonostante la tecnologia sia ancora in fase di sviluppo, Rubi ha già dimostrato la fattibilità su scala pilota. I suoi tessuti sono stati testati per verificarne la resistenza meccanica, la morbidezza e la compatibilità con i processi di tintura. Le prime capsule sperimentali mostrano che un materiale nato da gas di scarto può essere esteticamente indistinguibile da un tessuto tradizionale.
Naturalmente restano delle sfide. Gli enzimi devono mantenere la loro efficienza nel tempo, i costi di produzione devono scendere e la scalabilità industriale deve diventare sostenibile anche per le grandi catene. Ma i progressi recenti sono incoraggianti, e il sostegno di enti scientifici e partner commerciali dimostra che la direzione è concreta.
Immaginare che un giorno i nostri vestiti possano nascere dalla CO₂ prodotta dalle fabbriche o dai trasporti non è più utopia. È un modo completamente nuovo di concepire la materia, che trasforma il concetto stesso di “scarto” in risorsa.
Ogni volta che parliamo di sostenibilità, ci concentriamo spesso sulla riduzione dei consumi o sul riciclo. Rubi, invece, propone un salto di paradigma: non limitarsi a inquinare meno, ma creare valore proprio a partire dall’inquinante. È un ribaltamento che unisce biotecnologia, chimica verde e industria tessile in una sinergia mai vista prima.
Se tecnologie simili raggiungeranno la maturità industriale, potremmo assistere alla nascita di una nuova categoria di materiali “carbon-made”, in cui la CO₂ non è più un problema da risolvere ma una risorsa da coltivare. In prospettiva, questo non riguarderà solo la moda, ma anche plastica, carta, imballaggi e persino componenti per l’elettronica.
Rubi Laboratories rappresenta dunque una delle innovazioni più simboliche della transizione ecologica: un laboratorio in cui scienza, industria e natura tornano a parlarsi. In un mondo dove la CO₂ è diventata sinonimo di emergenza, l’idea di trasformarla in bellezza potrebbe essere una delle rivoluzioni più eleganti del nostro tempo.
Rubi Laboratories non promette solo un nuovo materiale, ma un nuovo modello industriale. Se riuscirà a mantenere le sue promesse di efficienza e scalabilità, potremmo assistere alla nascita della prima generazione di abiti “carbonio-positivo”, capaci di assorbire parte dell’inquinamento che li ha generati. È un cambio di prospettiva profondo, che sposta la moda dal ruolo di vittima ambientale a quello di protagonista della transizione sostenibile.
Un futuro in cui la CO₂ non rappresenta più un rifiuto da contenere, ma la base stessa della creazione. È la scienza che diventa tessuto, e il tessuto che, finalmente, restituisce aria pulita.
Fonti: