E se la carne non venisse più dagli allevamenti ma da un laboratorio? Non è fantascienza, ma il risultato di anni di ricerca scientifica: la carne coltivata in laboratorio.
Questa tecnologia nasce dall’incontro tra biologia cellulare, ingegneria tessutale e innovazione alimentare. L’idea è semplice quanto rivoluzionaria: far crescere cellule animali in ambienti controllati, proprio come accade in natura, ma senza l’impatto ambientale e senza ricorrere alla macellazione.
Oggi la carne coltivata non è ancora parte della nostra dieta quotidiana, ma rappresenta una delle più promettenti strade per ripensare il futuro del cibo in chiave sostenibile. È una sfida tecnologica, economica e culturale: da un lato le enormi potenzialità per ridurre inquinamento e consumo di risorse, dall’altro i dubbi su costi, energia e accettazione sociale.
Sì. Al momento in Italia la carne coltivata non può essere prodotta né venduta. La legge n. 172 del 1 dicembre 2023 vieta non solo la commercializzazione di alimenti derivati da colture cellulari di animali vertebrati, ma persino l’uso della parola “carne” in prodotti vegetali che la ricordano.
Il divieto è stato giustificato come tutela del patrimonio agroalimentare italiano e misura di precauzione, ma ha suscitato molte polemiche: da un lato chi vede in questa scelta la difesa delle eccellenze italiane, dall’altro chi la interpreta come un freno all’innovazione e un ostacolo a un settore in crescita a livello globale. In Europa, infatti, non esiste ancora un divieto generalizzato: sarà l’EFSA (Autorità europea per la sicurezza alimentare) a decidere se e come autorizzare la carne coltivata come novel food.
“Carne finta” è un termine impreciso: la carne coltivata non è né sintetica né artificiale in senso chimico. Si tratta di carne vera, composta da cellule animali, solo che queste non provengono da un allevamento ma da un processo di coltura cellulare in laboratorio.
Come funziona?
Il risultato è un prodotto che riproduce la carne convenzionale a livello biologico, senza allevamenti intensivi.
La carne coltivata (o cell-based meat) è una delle più interessanti innovazioni nel campo della food tech. Non va confusa con i prodotti plant-based (hamburger vegetali a base di legumi, soia o piselli): in quel caso si tratta di imitazioni vegetali della carne, mentre qui abbiamo carne a tutti gli effetti, prodotta con un approccio diverso.
Questa distinzione è importante, perché chiarisce che non si tratta di un “sostituto vegetale”, ma di una nuova tecnologia di produzione alimentare.
Il termine inglese meat significa semplicemente “carne”. Tuttavia, nel linguaggio comune e nel marketing, può creare confusione.
Capire queste differenze è fondamentale per non confondere innovazioni radicalmente diverse.
Il cuore della carne coltivata è l’ingegneria tessutale applicata al cibo.
Queste tecnologie non solo puntano a replicare la carne, ma anche a ripensarla in chiave più salutare e sostenibile.
Come ogni innovazione, anche la carne coltivata porta con sé grandi promesse ma anche sfide concrete. Non basta dire che è “più sostenibile”: per capirne davvero il potenziale dobbiamo guardare da vicino sia ai benefici che potrebbe offrire rispetto agli allevamenti tradizionali, sia agli ostacoli tecnici, economici ed etici che ancora ne frenano la diffusione.
Vantaggi:
Limiti:
La carne coltivata è una tecnologia promettente, ma non una bacchetta magica. Potrà essere davvero sostenibile solo se:
È quindi parte di una strategia alimentare più ampia, che deve includere anche la riduzione del consumo di carne, il supporto ai prodotti vegetali e la promozione di diete equilibrate.
Il primo hamburger in vitro è stato presentato nel 2013 a Maastricht. Da allora la ricerca ha fatto passi da gigante: oggi startup in Israele, Singapore e Stati Uniti hanno già ottenuto autorizzazioni per vendere carne coltivata, mentre l’Europa resta più cauta.
In Italia, invece, la normativa attuale congela ogni sperimentazione industriale.
La carne coltivata non è solo una curiosità scientifica, ma una sfida sistemica: cambiare il modo in cui produciamo proteine animali. Può ridurre l’impatto ambientale e aumentare l’etica nella filiera alimentare, ma è ancora lontana dalla piena accessibilità.
La vera domanda non è se arriverà sul mercato, ma quando e in che forma. Perché il futuro del cibo non si gioca solo su “cosa” mangiamo, ma su “come” lo produciamo.
Fonti