Nel cuore dell’Europa, qualcosa si sta muovendo. La Francia ha appena approvato una legge che promette di rivoluzionare il modo in cui consumiamo moda. E non si tratta solo di un provvedimento simbolico: questa iniziativa potrebbe rappresentare un modello per tutta l’Unione Europea nella lotta contro gli eccessi dell’ultra-fast fashion.
La nuova legge, approvata dal Senato francese il 10 giugno 2025, mira direttamente ai colossi del fast fashion più aggressivo, come Shein e Temu. Aziende che, grazie a catene produttive iper-veloci e a un marketing martellante, riescono a sfornare migliaia di nuovi capi ogni giorno, spesso venduti a pochi euro. Ma a quale prezzo per l’ambiente?
Uno dei punti più sorprendenti della nuova normativa è il divieto di pubblicità per i marchi ultra-fast fashion. Dimentichiamoci i reel su Instagram che mostrano haul infiniti o le sponsorizzazioni su TikTok: queste forme di promozione, spesso rivolte ai più giovani, verranno proibite. E non si scherza con le sanzioni: le multe potranno arrivare fino a 100.000 euro per azienda o 20.000 euro per influencer che promuova questi brand.
È un cambio di paradigma importante. Per la prima volta, uno Stato europeo riconosce ufficialmente che non si può continuare a spingere al consumo senza considerare le conseguenze sociali e ambientali.
Ma non finisce qui. Il cuore della legge è un sistema di penalità ambientali che colpirà economicamente i brand responsabili di sovrapproduzione. Si parte con un contributo di 5 euro per ogni capo venduto, cifra destinata a salire fino a 10 euro entro il 2030. In casi gravi, la sanzione potrà arrivare fino al 50% del prezzo di vendita.
Il messaggio è chiaro: produrre in modo intensivo, ignorando gli impatti sull’ambiente, non sarà più conveniente. I fondi raccolti saranno destinati a finanziare progetti virtuosi, come il riciclo dei tessuti, i centri di riparazione, iniziative di riutilizzo e campagne di educazione ambientale.
Il fenomeno dell’ultra-fast fashion ha raggiunto proporzioni gigantesche. Ogni anno si producono nel mondo oltre 100 miliardi di capi di abbigliamento, molti dei quali vengono usati pochissime volte prima di finire in discarica. Secondo i dati dell’ADEME (l’Agenzia francese per la transizione ecologica), ogni francese butta via in media 700.000 tonnellate di vestiti all’anno.
Oltre all’enorme quantità di rifiuti, c’è l’inquinamento legato alla produzione: l’industria tessile è responsabile di circa il 10% delle emissioni globali di CO₂ e di una parte significativa dell’inquinamento idrico mondiale, a causa delle tinture chimiche.
Per combattere questi effetti devastanti, la legge francese non punta solo su divieti e sanzioni. Vengono introdotte anche misure a favore della moda circolare, come il bonus riparazione: i cittadini riceveranno un incentivo, tra i 6 e i 25 euro, per far riparare i propri capi o scarpe anziché buttarli via.
Inoltre, sarà obbligatorio fornire informazioni dettagliate sull’impatto ambientale dei vestiti, sulla loro riparabilità, riciclabilità e composizione. Un modo per rendere il consumatore più consapevole e per premiare i marchi che investono in sostenibilità.
Non tutti però accolgono con entusiasmo questo nuovo approccio. Alcuni economisti e attivisti del settore segnalano che le nuove tasse potrebbero ricadere sui consumatori più fragili, cioè coloro che si affidano ai prezzi bassi delle grandi piattaforme per vestirsi.
Anche i colossi asiatici reagiscono. Shein, in particolare, ha definito la legge discriminatoria e ha dichiarato che, combinata con altre misure europee, potrebbe portare a un aumento dei prezzi fino a 12 euro per capo. Una strategia, a loro dire, che penalizza il libero mercato e limita l’accesso alla moda per tutti.
Ora la palla passa all’Unione Europea, che potrebbe decidere di prendere ispirazione da questa iniziativa francese per definire nuovi standard continentali. La legge è stata già notificata alla Commissione europea e, se supererà l’iter tecnico, entrerà in vigore ufficialmente entro il 2026.
Siamo forse all’inizio di una nuova era per la moda, dove a contare non sarà solo il numero di capi prodotti, ma la loro qualità, la durabilità e l’impatto ambientale.
La Francia ha lanciato un messaggio forte: il tempo del fast fashion senza regole è finito. È un passo audace verso un’economia più giusta, in cui l’ambiente e i diritti sociali pesano tanto quanto il profitto.
E se altre nazioni seguiranno l’esempio, potremmo davvero assistere alla nascita di un nuovo modello di consumo, più consapevole, più sostenibile e, in definitiva, più umano.
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