COP30: che cosa restava da dire e che cosa resta davvero da fare dopo il vertice di Belém

Giulia Tripaldi
December 5, 2025
5 min read

Che cosa rappresenta davvero la COP30 alla luce del documento finale?

Il vertice di Belém è terminato lasciando nell’aria una sensazione doppia, fatta di risultati tangibili e nodi rimasti irrisolti. Nelle settimane precedenti alla conferenza si era discusso molto delle ambizioni necessarie per mantenere viva la speranza dell’obiettivo di 1,5°C, e si era creata una forte aspettativa su un possibile cambio di passo. La chiusura dei negoziati ha invece mostrato un volto più complesso, dove avanzamenti e immobilismi convivono nello stesso testo.

Il primo elemento riconoscibile è l’impegno ad aumentare i fondi dedicati all’adattamento climatico. La promessa di triplicare le risorse entro il 2035 potrebbe rappresentare un sollievo concreto per quei Paesi che oggi affrontano già gli effetti più duri della crisi climatica, tra desertificazione, alluvioni e perdita di biodiversità. Il riconoscimento del ruolo delle comunità indigene come custodi di territori cruciali è un altro passaggio rilevante, perché sancisce che la politica internazionale deve confrontarsi con chi vive sul fronte più vulnerabile della crisi.

Eppure, mentre questi elementi tracciano un sentiero di speranza, il documento finale evita di pronunciare l’unica parola che avrebbe dato una direzione chiara e inequivocabile: abbandono dei combustibili fossili. L’assenza di un impegno vincolante su questo fronte rappresenta il limite più evidente dell’accordo. La scelta di non definire una roadmap concreta mantiene in vita gli interessi economici che frenano la transizione energetica e rende più difficile immaginare un futuro dove le emissioni diminuiscano al ritmo richiesto dalla scienza.

Perché il compromesso finale resta insufficiente per la stabilità climatica del pianeta?

Il cuore del problema è semplice da comprendere: la crisi climatica non rispetta la lentezza della diplomazia. Il 2025 è stato un anno segnato da temperature record e fenomeni meteorologici estremi che hanno confermato quanto il sistema climatico stia già cambiando in modo irreversibile. In questo contesto, un accordo che non affronta con decisione la questione dei combustibili fossili rischia di essere percepito come un passo troppo corto.

Molti paesi sono arrivati a Belém con posizioni distanti. Le economie emergenti hanno sottolineato la necessità di non bloccare il proprio sviluppo, mentre le economie avanzate hanno chiesto più ambizione ma senza offrire una strategia finanziaria proporzionata. Il risultato è stato un testo di compromesso che mantiene la cooperazione internazionale ma rimanda le decisioni più scomode. La transizione energetica resta una prospettiva condivisa, ma senza un percorso definito che indichi tempi, responsabilità e verifiche.

Nonostante ciò, la COP30 ha preservato un elemento fondamentale: il multilateralismo. In un mondo attraversato da crisi politiche, economiche e umanitarie, la sola capacità dei paesi di sedersi allo stesso tavolo e riconoscere la portata del problema rappresenta un valore. Tuttavia, il multilateralismo da solo non basta. Il clima non reagisce alle intenzioni, ma alle azioni. Se queste non arriveranno entro tempi brevi, l’accordo di Belém rischierà di essere ricordato come l’ennesimo vertice in cui le parole hanno superato le decisioni.

Che cosa cambia davvero per la politica climatica dopo COP30?

Uno degli aspetti più rilevanti della conferenza è la consapevolezza che l’età delle promesse sta finendo. La crisi climatica si manifesta ormai con effetti tangibili, che incidono sulla qualità della vita delle persone, sulle economie e sulla stabilità degli ecosistemi. La COP30 restituisce un quadro in cui la giustizia climatica diventa una richiesta sempre più forte, non più confinata ai Paesi del Sud globale, ma riconosciuta come interesse comune.

La discussione intorno a strumenti come i carbon markets, le politiche di adattamento e le tecnologie a basse emissioni rivela che la sfida attuale è anche di natura economica. Il mondo sta cercando un equilibrio tra crescita e sostenibilità, tra sviluppo e responsabilità. Se la transizione sarà guidata da strumenti equi e trasparenti, potrà generare opportunità. Se invece resterà ancorata ai compromessi, potrebbe aggravare le disuguaglianze esistenti.

In questo senso, la COP30 segna un punto di svolta per la politica internazionale. L’attenzione si sposta ora sulle decisioni che i governi dovranno prendere nei prossimi mesi e sui piani nazionali di riduzione delle emissioni, che saranno aggiornati entro il 2026. Saranno questi documenti, più che le dichiarazioni di Belém, a determinare la traiettoria del clima mondiale.

Quali responsabilità emergono per cittadini, governi e imprese dopo la COP30?

La crisi climatica è spesso raccontata come un fenomeno globale, ma le sue conseguenze si manifestano localmente. Questo significa che ogni settore della società ha un ruolo diverso ma complementare. I governi devono trasformare le intenzioni della COP30 in politiche concrete, con investimenti mirati, regolamentazioni efficaci e sostegno alle tecnologie pulite. Le aziende devono accelerare la propria decarbonizzazione, non solo per obbligo normativo ma come scelta strategica, perché un’economia ad alta impronta carbonica sarà sempre più fragile.

I cittadini, dal canto loro, diventano parte essenziale della transizione. Non per un dovere morale astratto, ma per la capacità collettiva di influenzare la domanda, i consumi e le politiche attraverso scelte informate. La COP30 mette in luce il fatto che ogni azione locale assume valore globale quando è inserita in un sistema consapevole e orientato al cambiamento. La ricerca di una sostenibilità reale non può essere demandata esclusivamente ai governi o alle organizzazioni internazionali, perché dipende da comportamenti quotidiani e da un cambiamento culturale.

Perché la conclusione della COP30 non può essere un punto d’arrivo ma solo un punto di partenza?

L’esito dei negoziati di Belém ci mostra con chiarezza che la lotta al cambiamento climatico non può più permettersi la lentezza dei passaggi diplomatici. L’accordo finale rappresenta un passo avanti e un limite allo stesso tempo. Avanza sul terreno dell’adattamento e della protezione delle comunità vulnerabili, ma resta indietro sulla questione dell’abbandono dei combustibili fossili, che rimane la causa principale della crisi climatica. Questa distanza tra urgenza scientifica e risposta politica è il vero nodo del futuro.

La COP30 ci consegna una verità difficile ma necessaria: il futuro della politica climatica dipenderà dalle scelte che verranno prese non durante il prossimo vertice, ma nelle prossime settimane. I governi dovranno dimostrare di aver compreso la gravità del problema. Le aziende dovranno trasformare gli impegni in investimenti. Le città dovranno diventare laboratori di sostenibilità. I cittadini dovranno rivendicare il diritto a vivere in un mondo che protegge la loro salute e il loro futuro.

Il clima non aspetta e non negozia. Se la COP30 è servita a ricordarlo, allora potrebbe davvero rappresentare l’inizio di una fase nuova. Non sarà una decisione presa a Belém a cambiare il corso della storia, ma la volontà collettiva di trasformare quel compromesso in un movimento reale verso la transizione energetica. La politica, l’economia e la società hanno ora l’occasione di dimostrare che il limite della COP30 può diventare la forza del dopo.

Giulia Tripaldi
December 5, 2025
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