È iniziata di nuovo l’estate, e come negli ultimi anni, i temi che dominano i notiziari e le preoccupazioni collettive sono gli stessi: incendi, siccità, emergenze idriche e, al tempo stesso, nubifragi improvvisi e devastanti. Se una volta questi eventi potevano sembrare straordinari, oggi sono diventati una costante. Non si tratta più di anomalie meteorologiche isolate, ma di un quadro sempre più coerente e grave di cambiamento climatico accelerato.
L’Italia è particolarmente esposta a queste crisi per la sua posizione geografica e la conformazione del territorio: montagne, coste, fiumi, aree agricole e metropoli convivono in un fragile equilibrio messo sempre più a rischio dall’aumento delle temperature e dalla gestione inadeguata delle risorse naturali.
Secondo ISPRA e SNPA, il mese di giugno 2022 è stato il più caldo mai registrato in Italia dal 1961,con un’anomalia di +3,09 °C rispetto alla media climatica1991–2020. Ma non è stato un caso isolato: l’intero anno 2022 ha segnato un’anomalia media annuale di +1,23 °C, confermando il trend verso un’Italia sempre più calda e secca. Anche il 2023 si è mantenuto su livelli molto elevati, con un’anomalia di +1,20 °C nelle temperature minime giornaliere.
Le ondate di calore e l’assenza prolungata di piogge hanno reso sempre più frequenti e violenti gli incendi boschivi. Nel 2021 e 2022, l’Italia ha perso migliaia di ettari di foresta, con conseguenze drammatiche su biodiversità, economia e salute pubblica.
La siccità, invece, è diventata un’emergenza strutturale. Nel bacino del Po, il livello dell’acqua ha toccato minimi storici. Le regioni del Nord, tradizionalmente più piovose, hanno dovuto fare i conti con razionamenti e crisi idrica, mentre il Sud ha visto aggravarsi problemi antichi legati alla gestione dell’acqua.
All’estremo opposto della siccità, l’Italia si trova sempre più spesso a fronteggiare piogge intense e concentrate che causano danni devastanti. Il caso più emblematico degli ultimi anni è quello dell’Emilia-Romagna, dove a maggio 2023 un evento meteo estremo ha scaricato in poche ore l’equivalente di diversi mesi di pioggia, provocando alluvioni lampo, frane e straripamenti in decine di comuni. Il bilancio è stato tragico: decine di vittime, migliaia di sfollati, danni stimati in oltre 9 miliardi di euro e intere infrastrutture distrutte.
Ma non si è trattato di un caso isolato. Episodi simili si sono verificati negli anni recenti anche in Liguria, Sicilia, Marche e Veneto, confermando che l’Italia sta vivendo una fase climatica sempre più instabile, la “nuova normalità” sono eventi estremi che si manifestano in modo improvviso e violento.
La causa è duplice: da un lato c’è il riscaldamento globale, che aumenta la quantità di vapore acqueo nell’atmosfera e rende le precipitazioni più abbondanti; dall’altro, c’è la fragilità del territorio, compromesso da decenni di urbanizzazione incontrollata, impermeabilizzazione dei suoli e mancanza di manutenzione dei corsi d’acqua.
Quando la pioggia arriva, lo fa spesso “troppo tardi e tutta insieme”. I terreni, induriti dalla siccità o coperti da asfalto e cemento, non riescono ad assorbire l’acqua, che scorre in superficie e crea rapidamente fiumi impetuosi, anche in zone che non erano classificate a rischio idrogeologico.
Questo è il paradosso climatico italiano: mentre da una parte si soffre per la mancanza d’acqua, dall’altra ci si trova esposti a un eccesso ingestibile, che le infrastrutture attuali – spesso obsolete – non sono in grado di reggere.
Di fronte a questi cambiamenti, l’Italia continua a muoversi in ritardo. I segnali scientifici sono chiari da tempo: il clima sta cambiando, e le emergenze – che un tempo potevano essere considerate straordinarie – stanno diventando sistemiche. Tuttavia, la risposta istituzionale è ancora reattiva più che preventiva.
Gli strumenti non mancano. Enti come ISPRA e la Protezione Civile hanno elaborato mappe del rischio climatico, strategie di adattamento, piani specifici per aree montane, vulnerabili al ritiro dei ghiacciai e al degrado del permafrost (come illustrato nel documento “Valutazione della pericolosità associata a ghiacciai e permafrost nelle aree montane”). Tuttavia, l’attuazione di queste strategie è frammentata e discontinua. Troppo spesso i piani rimangono sulla carta o vengono ignorati per mancanza di fondi, di coordinamento o di volontà politica.
Un altro nodo è la frammentazione istituzionale: la competenza su clima, territorio, emergenze e infrastrutture è distribuita tra comuni, regioni, province autonome e governo centrale, con competenze sovrapposte che rallentano l’intervento e rendono difficile una visione d’insieme.
E forse, la lacuna più grande è quella culturale e comunicativa. In Italia manca ancora un dibattito pubblico maturo e strutturato sul cambiamento climatico. Le emergenze vengono vissute come crisi momentanee da superare, non come sintomi di un sistema da ripensare. L’informazione è spesso occasionale, concentrata nei momenti più drammatici, ma priva di continuità e approfondimento.
La conseguenza è che cittadini e istituzioni si trovano impreparati di fronte a eventi che sono ormai altamente prevedibili, scientificamente documentati, e sempre più frequenti.
Serve un cambiamento radicale. Alcuni punti chiave
Le emergenze climatiche in Italia non sono più rare. Sono la normalità, e lo saranno sempre di più. L’estate è appena iniziata, ma il conto del clima si sta già presentando. Ignorarlo significa pagarlo più caro domani — in vite, in economia, in diritti. È tempo di trattare questi fenomeni non più come emergenze isolate, ma come sintomi di un cambiamento profondo che richiede una risposta strutturale e collettiva.
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