Quando nel 2020 Apple ha annunciato l’obiettivo di diventare carbon neutral entro il 2030 su prodotti e catena di fornitura, ha alzato l’asticella per l’intero settore. Non parliamo solo dei suoi uffici (già neutralizzati dal 2020), ma di tutto ciò che serve per costruire e distribuire un iPhone, un Mac, un Apple Watch: materiali, manifattura, logistica, uso e fine vita. È un impegno enorme, che richiede riduzioni profonde delle emissioni e non soltanto compensazioni. Apple afferma di aver ridotto le emissioni complessive di oltre il 60% rispetto al 2015 ed è in marcia con i fornitori per portare energia rinnovabile in fabbrica su scala massiccia.
L’Environmental Progress Report 2025 dettaglia la strategia: più materiali riciclati nei prodotti, elettricità rinnovabile per gli stabilimenti dei partner, azioni specifiche su processi ad alta intensità (semiconduttori e display), logistica più efficiente e packaging in fibra. Nel 2024 la rete dei fornitori ha messo online 17,8 GW di elettricità rinnovabile, evitando 21,8 milioni di tonnellate di CO₂e; l’impronta complessiva annuale resta comunque nell’ordine delle decine di milioni di tonnellate. Il quadro è quello di un taglio sostanziale, ma con una base emissiva ancora rilevante.
Dietro i grandi numeri c’è l’incastro più difficile: lo Scope 3, cioè tutto ciò che non è sotto il controllo diretto dell’azienda. È qui che Apple concentra sforzi e comunicazione: coinvolgimento dei fornitori, requisiti su energia e sostanze, obiettivi su gas fluorurati nei processi di produzione. Ma lo Scope 3, per definizione, è la parte più variabile e complessa da dimostrare e verificare.
Ci sono elementi che, onestamente, spostano l’industria. L’impegno con i fornitori ha creato una massa critica di rinnovabili senza precedenti nell’elettronica di consumo; in parallelo, il crescente uso di materiali riciclati (terre rare, alluminio, cobalto) riduce domanda di estrazione e impatti locali. Non è solo un esercizio di PR: quando un leader di mercato impone standard, spesso il resto della filiera segue.
L’ultimo anno ha mostrato anche il lato fragile della comunicazione “carbon neutral”. In Germania, a fine agosto 2025, un tribunale ha stabilito che definire “CO₂-neutral” l’Apple Watch è fuorviante: le compensazioni forestali usate per colmare parte delle emissioni non garantirebbero la durabilità dello stoccaggio richiesta per sostenere un claim del genere. Apple non potrà più pubblicizzarlo con quella dicitura nel Paese; il caso si intreccia con l’evoluzione normativa europea che restringe drasticamente l’uso di claim ambientali basati su offset.
Sul fronte legale, negli Stati Uniti è arrivata anche una class action in cui si contesta la veridicità delle dichiarazioni “carbon neutral” su alcuni modelli di Watch. Non è una sentenza definitiva, ma segnala che la fiducia pubblica verso le compensazioni come strumento di neutralità è sotto pressione.
Il contesto regolatorio spinge nella stessa direzione: l’UE ha approvato regole che vietano claim ambientali ingannevoli e, dal 2026, limiteranno severamente i riferimenti a “climate/carbon neutral” se poggiano su offset non certificati e non addizionali. In breve: meno spazio alle scorciatoie narrative, più richiesta di riduzioni reali.
In teoria, gli offset servono a controbilanciare emissioni residuali “dure” da abbattere, finanziando progetti che rimuovono o evitano CO₂. In pratica, molti schemi forestali soffrono di problemi di addizionalità (sarebbero avvenuti comunque?), permanenza (per quanto tempo il carbonio resta stoccato?) e verifica. Il tribunale tedesco ha colpito proprio su questo: se il carbonio rischia di tornare in atmosfera in pochi decenni, è lecito chiamare “neutrale” un prodotto che emette oggi? Il dibattito, acceso anche tra esperti di sostenibilità, non riguarda solo Apple ma l’intero mercato dei crediti volontari.
La strategia credibile per il 2030, anche secondo la scienza del clima, parte da un principio: ridurre prima, compensare il minimo indispensabile. Sul primo punto, Apple mostra progressi tangibili (60% di riduzione dal 2015; fornitori su 17,8 GW di rinnovabili; interventi su gas processuali). Sul secondo, il margine si restringe: con regole più dure e scrutinio pubblico, le emissioni residue dovranno essere davvero “hard-to-abate” e coperte con rimozioni durature (non semplici progetti di evitamento). La stessa comunicazione di Apple, negli ultimi mesi, si è spostata dal claim “carbon neutral” di prodotto a un racconto più prudente su progressi e riduzioni.
Per capire se l’obiettivo 2030 sia realistico più che retorico, gli indicatori chiave nei prossimi 24–36 mesi saranno tre:
La risposta più onesta oggi è “dipende da come finisce”. Non c’è dubbio che Apple abbia spinto avanti la filiera: rinnovabili ai fornitori, materiali riciclati, attenzione a processi specifici e packaging. I tagli del 60% in meno di dieci anni sono un risultato di rilievo se misurati contro la crescita del business e la corsa globale all’AI (energivora per definizione). D’altra parte, la narrazione “carbon neutral” di prodotto è stata riconfigurata da giudici e regolatori: con offset a bassa permanenza non regge più, e fingere che un bene di consumo sia “a impatto zero” rischia di essere fuorviante.
La linea di confine, quindi, non sta tra “eroi” e “cattivi”, ma tra strategie trasparenti di riduzione e comunicazioni semplificate. Se Apple continuerà a spostare il baricentro da “neutralità di marketing” a “decarbonizzazione misurata”, il 2030 può essere una rivoluzione credibile. Se invece il gap finale sarà colmato soprattutto con compensazioni discutibili, la critica di greenwashing resterà sul tavolo.
Per un’azienda con la potenza comunicativa di Apple, la chiarezza è parte della soluzione. Tre mosse pratiche:
– Dati granulari per Paese e fornitore, su base annuale, con verifiche terze e metodologia coerente (GHG Protocol, SBTi).
– Claim conservativi: parlare di “riduzioni” e “impronta residua”, non di neutralità di prodotto, finché le rimozioni non saranno durature e tracciabili.
– Educazione del pubblico: spiegare cos’è una rimozione “permanente”, perché costa di più e perché serve a tutti che le imprese la finanzino.
Ad oggi, il percorso di Apple è significativo e replicabile, soprattutto sul fronte fornitori e materiali, ma la promessa “carbon neutral 2030” sarà credibile solo se i prossimi report mostreranno riduzioni reali e un uso minimo e rigoroso di rimozioni ad alta permanenza. In un’Europa che restringe i claim ambientali e in un mondo sempre più attento alla trasparenza climatica, l’unica rivoluzione possibile è quella delle prove.
Fonti: