Negli ultimi anni, sempre più aziende e investitori si sono abituati a un acronimo che promette di rivoluzionare il capitalismo: ESG, ovvero Environmental, Social and Governance. Tre parole chiave, tre aree su cui valutare quanto un’impresa sia realmente sostenibile: non solo in termini ambientali, ma anche nei suoi impatti sociali e nel modo in cui è gestita.
In teoria, si tratta di una svolta etica. In pratica, il dibattito è molto più complicato.
Le aziende che dichiarano di seguire criteri ESG si impegnano a ridurre le emissioni, promuovere l’inclusività, garantire trasparenza e combattere corruzione e sfruttamento. I bilanci non mostrano più solo i profitti, ma anche le scelte che li hanno generati.
Tuttavia, non esiste un unico standard globale per definire cosa sia “ESG” in modo vincolante. Ogni società può costruire il proprio racconto — e qui comincia il problema. Perché se è vero che una valutazione ESG dovrebbe aiutare a distinguere chi fa davvero la differenza, è anche vero che, senza criteri comuni e verificabili, il rischio è quello di assistere all’ennesima narrazione “green” di facciata.
Sempre più fondi di investimento, soprattutto in Europa, si dicono ESG-oriented: decidono cioè di allocare il proprio capitale solo verso aziende che rispettano certi criteri. Questo ha generato una corsa a dimostrare il proprio impegno ambientale e sociale.
Ma nella pratica, molte valutazioni ESG si basano su autodichiarazioni, report aziendali non verificati o classifiche stilate da agenzie private, che usano parametri differenti tra loro. Una stessa azienda può ottenere un punteggio molto alto da una fonte e molto basso da un’altra.
Il risultato? La sostenibilità rischia di diventare una strategia di branding, più che una trasformazione reale.
Bruxelles ha colto il problema. E sta provando a introdurre strumenti che diano credibilità alla finanza sostenibile. La nuova CSRD(Corporate Sustainability Reporting Directive), entrata in vigore nel 2024,obbliga le grandi aziende europee a rendicontare in modo preciso, dettagliato e trasparente i propri impatti ambientali e sociali.
Non solo: dovranno spiegare in che modo intendono raggiungere gli obiettivi climatici dell’UE, e saranno sottoposte a verifiche indipendenti. Un tentativo, questo, di contrastare sia il greenwashing, sia il più recente fenomeno del greenhushing, cioè la scelta di non comunicare per paura di sbagliare.
Il rischio più grande, oggi, è che la sostenibilità venga raccontata come un affare da élite finanziarie, fatto di grafici e sigle accessibili solo a investitori e grandi aziende. Eppure, l’impatto dell’azione(o dell’inerzia) di queste realtà è quotidiano: riguarda il nostro clima, il lavoro, le disuguaglianze, i diritti.
Per questo, il dibattito sugli ESG non può rimanere chiuso nei consigli di amministrazione o nei palazzi dell’eurocrazia. Deve entrare nel dibattito pubblico. Perché le scelte che vengono definite “responsabili” influenzano anche chi, quelle scelte, non ha mai avuto il potere di prenderle.
Gli ESG rappresentano uno strumento potenzialmente rivoluzionario. Ma per esserlo davvero, serve chiarezza, obbligo di trasparenza, accesso pubblico alle informazioni e soprattutto coerenza tra ciò che si dichiara e ciò che si fa.
In gioco non c’è solo la reputazione delle aziende, ma la credibilità dell’intera transizione ecologica. E una transizione, per essere giusta, deve essere prima di tutto vera.