C'era una volta una terra generosa, incastonata tra colline fertili, corsi d'acqua limpidi e una natura selvaggia che prosperava. Gli abitanti vivevano in equilibrio con l’ambiente, coltivavano, raccoglievano, rispettavano i ritmi del paesaggio. Ma un giorno, quella terra cominciò a cambiare. I fiumi si fecero torbidi, l'aria più densa, i campi smettono di fruttare. Era cominciata l’invasione silenziosa dell’illegalità ambientale.
Non è una favola. Questo è accaduto e tuttora accade in più parti d’Italia, sotto gli occhi spesso indifferenti o impotenti di chi dovrebbe proteggere. Dietro al degrado, ci sono affari milionari, reti criminali organizzate, complicità istituzionali e silenzi comprati. Questo è il volto delle cosiddette ecomafie.
Il termine "ecomafia" è stato coniato da Legambiente per definire le attività criminali che hanno come oggetto l’ambiente: traffico illecito di rifiuti, abusivismo edilizio, incendi dolosi, disboscamenti, saccheggio di risorse naturali, bracconaggio, smaltimento illegale di materiali tossici. Tutto ciò, spesso, è orchestrato da organizzazioni mafiose tradizionali o da nuove reti criminali, legate a interessi economici e politici.
Nel 2022, secondo i dati del Rapporto Ecomafia di Legambiente, sono stati oltre 30.000 i reati ambientali accertati solo in Italia, con un incremento rispetto agli anni precedenti. La maggior parte di questi reati si concentra al Sud, in particolare in Campania, Calabria, Puglia e Sicilia, ma nessuna regione è esente.
Un caso emblematico è quello della Terra dei Fuochi, un’area compresa tra le province di Napoli e Caserta. Qui, per decenni, rifiuti industriali pericolosi sono stati interrati o bruciati illegalmente in campagne e cave abbandonate, grazie alla connivenza tra imprese settentrionali e clan camorristici locali. Come racconta l’articolo pubblicato su Heliyon da Piero Alberti (2022), le conseguenze sono devastanti: inquinamento di suolo e falde acquifere, aumento di patologie oncologiche, riduzione della speranza di vita.
Le ricerche epidemiologiche confermano un'incidenza più alta di tumori e malformazioni congenite nei comuni più esposti. Lo Stato ha risposto in ritardo e, spesso, in modo inefficace. Solo negli ultimi anni si è cominciato a parlare con chiarezza di disastro ambientale e a tentare una bonifica, ma i danni sono profondi e difficilmente reversibili.
Il concetto di mafia verde si riferisce alle infiltrazioni mafiose nei nuovi settori "green": smaltimento dei rifiuti, energie rinnovabili, appalti per le bonifiche, gestione del ciclo idrico. In nome della transizione ecologica, si aprono nuovi business dove la criminalità organizzata cerca di insinuarsi, con strategie meno violente ma altrettanto efficaci.
Ad esempio, sono sempre più frequenti i casi di parchi eolici e fotovoltaici realizzati in modo illegale, con fondi pubblici sottratti alla collettività e legami opachi tra imprese e clan. Anche in questo caso, i danni sono molteplici: ambientali, economici, sociali.
I crimini ambientali non compromettono solo l’ecosistema. Distruggono anche l’economia locale, spaventano investitori e imprenditori onesti, allontanano i turisti, stigmatizzano territori che invece meriterebbero riscatto.
Molti luoghi inquinati finiscono per essere raccontati solo attraverso il prisma dell’emergenza e del degrado. I titoli dei giornali parlano della Terra dei Fuochi, dei Tamburi a Taranto o di altre "zone rosse" esclusivamente in relazione all'inquinamento e alle malattie, dimenticando che in quei luoghi vivono migliaia di persone, con storie, identità e speranze.
Nel quartiere Tamburi di Taranto, ad esempio, la vicinanza con lo stabilimento siderurgico (ex ILVA) ha generato situazioni di forte criticità ambientale e sanitaria, con ripercussioni sulla qualità della vita e sulla percezione collettiva del luogo. Anche se qui non si parla direttamente di ecomafia, si resta comunque all'interno di dinamiche di illegalità ambientale e di negligenza istituzionale.
La stigmatizzazione territoriale ha un impatto che va oltre l’ambiente: porta isolamento, perdita di fiducia collettiva, emigrazione forzata. E pesa soprattutto su chi nel frattempo cerca di resistere, di ricostruire, di restituire dignità al proprio luogo di origine.
Per contrastare questi fenomeni, servono leggi più severe, controlli più efficaci, ma soprattutto una cultura diffusa della legalità ambientale. Le norme esistono, ma troppo spesso vengono aggirate, ignorate o applicate con lentezza e superficialità. Occorre una nuova alleanza tra cittadinanza attiva, istituzioni credibili, forze dell’ordine indipendenti e mondo della cultura che scelga di non voltarsi dall’altra parte.
Bisogna rompere il silenzio che copre questi crimini. Bisogna raccontare questi territori non solo come vittime, ma anche come luoghi di resistenza, di denuncia civile, di rinascita possibile. Ogni volta che si sceglie di tacere, si diventa complici. Ogni volta che si chiama “emergenza” ciò che è il frutto di decenni di malaffare sistemico, si contribuisce a nascondere la verità.
Perché denunciare questi crimini non è solo una battaglia per l’ambiente, è una questione di giustizia sociale, equità territoriale, diritti umani. Ogni terreno avvelenato, ogni fiume contaminato, ogni rifiuto bruciato illegalmente, ogni albero tagliato con il beneplacito della mafia è una ferita aperta alla nostra democrazia. È una sottrazione di futuro, un’espropriazione di speranza.
Raccontare tutto questo è un dovere civico. Proteggerlo è un atto radicale di amore e responsabilità verso le nuove generazioni. Perché il crimine ambientale è subdolo: non fa rumore, ma uccide lentamente. E il silenzio, da solo, non salverà nessuno.
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