
Nei giorni scorsi abbiamo dedicato un articolo di Abouthat alla COP30, analizzando le aspettative e il significato di un summit ospitato nel cuore dell’Amazzonia. Era un momento in cui il Brasile si preparava a presentare al mondo un evento climaticamente simbolico, capace di riavvicinare il dibattito ambientale al territorio che più di ogni altro rappresenta la fragilità del pianeta.
Oggi, a ridosso della conferenza, è diventato necessario tornare sull’argomento. Non per ripetere ciò che avevamo già raccontato, ma per osservare le nuove tensioni che stanno emergendo. L’obiettivo di questo aggiornamento è proprio quello di guardare la COP30 da una lente diversa, più nitida e forse più critica, alla luce di ciò che è cambiato. Le ultime settimane hanno portato con sé notizie che incidono profondamente sulla credibilità politica e ambientale del summit, dalla conferma delle assenze dei maggiori emettitori globali alle controversie sulle opere realizzate nel Pará. Tutto questo rende la situazione molto diversa rispetto al quadro iniziale.
Quando il Brasile ha annunciato di voler ospitare la COP30 a Belém, l’immagine evocata era quella di una foresta protagonista, valorizzata come patrimonio ambientale mondiale. Negli intenti era un gesto di rottura, un modo per spostare la discussione climatica dal formalismo dei palazzi alla vita reale dei territori minacciati. Scegliere l’Amazzonia sembrava quasi un invito collettivo a guardare da vicino l’urgenza climatica.
Ma più ci si avvicina a novembre 2025, più questa immagine appare incrinata. Le contraddizioni non riguardano solo i contenuti politici del summit, ma anche ciò che accade fisicamente intorno alla conferenza. Il paese che vuole presentarsi come difensore della foresta continua ad affrontare problemi interni di deforestazione, conflitti con le comunità indigene e investimenti energetici controversi. In questo scenario la COP30 appare come un evento sospeso tra ambizione e realtà, un simbolo che fatica a trovare coerenza nella pratica.
È impossibile non partire dalla questione più discussa delle ultime settimane. La conferma che Stati Uniti, Cina e Indianon parteciperanno con rappresentanti ai massimi livelli ha ridimensionato le aspettative del summit. Si tratta dei tre paesi più responsabili delle emissioni globali di gas serra. La loro assenza incide in modo significativo sulla capacità della COP30 di produrre decisioni realmente vincolanti.
Per la Cina arriveranno figure tecniche, l’India sarà rappresentata da funzionari diplomatici e gli Stati Uniti non invieranno alcun membro di primo piano del governo. La mancanza dei principali attori globali crea un vuoto negoziale che nessun altro paese può colmare. Il summit rischia così di assumere una dimensione più simbolica che operativa e la stessa credibilità del processo multilaterale viene inevitabilmente messa in discussione.
Il punto non riguarda solo la geopolitica. Riguarda il senso stesso delle conferenze ONU sul clima. Senza la presenza attiva dei giganti delle emissioni, ogni impegno rischia di apparire come un atto volontaristico, privo di quella forza collettiva necessaria a cambiare realmente la traiettoria climatica del pianeta.
La polemica più controversa riguarda l’Avenida Liberdade, una nuova arteria stradale costruita nello stato del Pará che attraversa un’area di foresta. Le autorità insistono nel dire che si tratta di un progetto precedente alla COP e che non è stato creato per ospitare il summit. La tempistica dei lavori però ha alimentato sospetti e critiche, perché l’opera appare funzionale proprio al flusso di delegati e servizi che arriveranno a Belém.
Le immagini dei cantieri hanno sollevato una domanda inevitabile. Come può un evento dedicato alla protezione del clima essere associato, anche indirettamente, a interventi che comportano la rimozione di vegetazione in una regione già vulnerabile? Gli oppositori vedono in questa strada un simbolo perfetto della distanza che può esistere tra il linguaggio della sostenibilità e le pratiche reali dei governi. Il fatto che la COP30, il summit dedicato alla difesa dell’ambiente, sia circondata dal sospetto di aver favorito la deforestazione amplifica un paradosso difficile da ignorare.
Il governo brasiliano ha negato qualsiasi collegamento diretto tra la strada e il summit, ma il dibattito rimane acceso. Non è solo una questione ambientale, è una questione di immagine e coerenza. La COP30 nasceva come evento in armonia con la foresta. Vederla legata a un’opera che modifica l’ecosistema locale, anche se per ragioni più ampie, rende tutto più complicato agli occhi dell’opinione pubblica.
L’Amazzonia non è solo una riserva biologica, ma un territorio vivo, abitato da popolazioni che da secoli custodiscono la foresta e le sue risorse. Le proteste indigene che stanno accompagnando i preparativi della COP30 non sono un episodio isolato, ma l’espressione di un malessere che si intreccia con la storia recente del Brasile.
Molte comunità denunciano il fatto che la conferenza rischi di essere un grande evento mediatico che parla di clima senza ascoltare davvero chi vive nei territori. Le loro preoccupazioni riguardano la salvaguardia dei diritti, la tutela dei territori sacri e la protezione delle aree minacciate dai progetti estrattivi e dalle opere infrastrutturali. Per loro la crisi climatica non è una discussione diplomatica, ma una questione esistenziale.
La COP30, invece di essere un momento di dialogo, rischia di diventare l’ennesima occasione in cui le popolazioni indigene vengono coinvolte solo simbolicamente. Il contrasto tra retorica della partecipazione e pratica della marginalizzazione rende il clima sociale intorno al summit più teso e complesso rispetto a quanto immaginato mesi fa.
Accanto alle controversie sui lavori infrastrutturali, c’è un altro punto critico che sta oscurando l’immagine del Brasile come leader ambientale. Il paese continua a sostenere importanti progetti di esplorazione petrolifera nella zona della foce del Rio delle Amazzoni, un ecosistema delicatissimo e ancora poco studiato. Queste operazioni, appoggiate dal governo federale, sono criticate da specialisti e organizzazioni ambientaliste che temono impatti irreversibili.
Il paradosso è evidente. Lo stesso paese che ospita la COP30 e che intende proporsi come riferimento globale nella protezione della foresta mantiene strategie energetiche basate sul petrolio in aree sensibili. Questo doppio binario mina la credibilità internazionale del Brasile e apre un interrogativo sulla possibilità di conciliare ambizione climatica ed esigenze economiche.
Questo aggiornamento ci permette di osservare la COP30 con maggiore lucidità. L’evento resta importante, perché ogni spazio di negoziazione internazionale è essenziale nella lotta al cambiamento climatico. Tuttavia, l’insieme delle assenze eccellenti, delle tensioni sociali e delle criticità ambientali riduce la forza simbolica che il Brasile voleva imprimere al summit.
La COP30 potrà ancora portare risultati, ma dovrà farlo in un contesto fragile. I negoziati rischiano di svilupparsi senza la presenza attiva dei protagonisti globali e la credibilità dell’evento dipenderà molto dalla capacità del Brasile di dimostrare coerenza tra ciò che sostiene e ciò che realizza sul proprio territorio.