
Quando si parla di ambiente in Italia, la sensazione diffusa è che le decisioni arrivino sempre “da lontano”. A volte è colpa dell’Europa, altre delle Regioni, altre ancora dello Stato centrale. Ma chi decide davvero le politiche ambientali in Italia? E soprattutto: perché spesso sembra così difficile capire dove finisce una responsabilità e ne inizia un’altra?
La risposta non è semplice, perché la governance ambientale italiana è il risultato di un intreccio multilivello che coinvolge Unione Europea, Stato e Regioni, ciascuno con competenze precise ma spesso sovrapposte. Comprendere come funziona questo meccanismo non è solo un esercizio giuridico: è il primo passo per capire perché alcune politiche funzionano, altre si bloccano e altre ancora restano sulla carta.
L’Unione Europea è oggi il principale motore delle politiche ambientali nazionali. Gran parte delle norme che regolano ambiente, clima, energia e sostenibilità nasce a livello europeo, sotto forma di direttive, regolamenti e strategie comuni.
Il motivo è semplice. I problemi ambientali non conoscono confini nazionali. L’inquinamento dell’aria, il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità o la gestione dei rifiuti hanno effetti che superano i confini degli Stati. Per questo l’UE ha progressivamente costruito una politica ambientale comune, diventata centrale con il Green Deal europeo.
L’Europa non entra però nei dettagli operativi locali. Definisce obiettivi, standard minimi, scadenze e principi generali. Stabilisce, ad esempio, quante emissioni vanno ridotte, quali sostanze sono vietate, quali livelli di qualità dell’aria devono essere rispettati. Tocca poi agli Stati membri tradurre queste indicazioni in leggi nazionali.
Il principale strumento con cui l’UE incide sull’Italia è la direttiva europea. A differenza dei regolamenti, che sono immediatamente applicabili, le direttive fissano obiettivi da raggiungere lasciando agli Stati il compito di decidere come farlo.
In Italia questo passaggio avviene attraverso il recepimento, che può richiedere leggi, decreti legislativi o regolamenti. È una fase cruciale, perché è qui che spesso emergono ritardi, compromessi politici e interpretazioni restrittive.
Se il recepimento è incompleto o tardivo, l’Italia rischia le procedure di infrazione, che possono portare a sanzioni economiche. Molte criticità ambientali italiane, dalla gestione dei rifiuti alla qualità dell’aria, sono state oggetto proprio di infrazioni europee.
Lo Stato ha un ruolo centrale di coordinamento e indirizzo. La Costituzione italiana, dopo la riforma del Titolo V, assegna allo Stato la competenza esclusiva sulla tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.
Questo significa che lo Stato stabilisce il quadro normativo generale. Definisce le leggi di riferimento, fissa i limiti ambientali, stabilisce le sanzioni e coordina le politiche nazionali. Ministeri come il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica hanno il compito di tradurre gli obiettivi europei in politiche nazionali.
Tuttavia, tutela non significa gestione quotidiana. Ed è qui che entrano in gioco le Regioni.
Le Regioni hanno competenze fondamentali sull’attuazione delle politiche ambientali. Pur non potendo abbassare gli standard fissati dallo Stato o dall’Europa, possono intervenire su molti aspetti operativi.
Gestiscono la pianificazione territoriale, il ciclo dei rifiuti, la qualità delle acque, le autorizzazioni ambientali, i trasporti locali e parte delle politiche energetiche. In pratica, sono le Regioni a decidere dove realizzare un impianto, come organizzare la raccolta differenziata o come incentivare determinate fonti energetiche.
Questa autonomia spiega perché la stessa politica ambientale possa avere effetti molto diversi da una Regione all’altra. Ed è anche uno dei motivi per cui l’Italia appare spesso disomogenea sul piano della sostenibilità.
I conflitti tra Stato e Regioni nascono dalla sovrapposizione delle competenze. Lo Stato tutela, le Regioni gestiscono, ma nella pratica il confine non è sempre chiaro.
Pensiamo agli impianti energetici, alle discariche o alle infrastrutture strategiche. Lo Stato può considerarli di interesse nazionale, mentre le Regioni rivendicano il diritto di decidere sul proprio territorio. Il risultato è un rimpallo di responsabilità che rallenta le decisioni e alimenta il contenzioso.
Non è un caso se la Corte Costituzionale è spesso chiamata a dirimere questi conflitti, stabilendo chi ha l’ultima parola in materia ambientale.
A livello locale entrano in gioco anche Comuni e Città Metropolitane, che hanno un ruolo operativo ancora più concreto. Gestiscono il verde urbano, il traffico, parte della qualità dell’aria e l’organizzazione dei servizi ambientali.
Tuttavia, il loro margine di azione è limitato dalle decisioni superiori. Un Comune non può derogare ai limiti di emissione nazionali o europei, ma può decidere come raggiungerli, ad esempio attraverso zone a traffico limitato o incentivi locali.
In questo senso, la politica ambientale italiana è il risultato di una catena decisionale lunga e complessa, dove ogni livello incide ma nessuno decide da solo.
La frammentazione delle competenze è uno dei principali problemi della governance ambientale in Italia. Quando qualcosa non funziona, è difficile individuare un responsabile unico. L’Europa accusa lo Stato, lo Stato accusa le Regioni, le Regioni accusano i Comuni.
Questo sistema rallenta l’attuazione delle politiche, rende difficile la programmazione a lungo termine e spesso mina la fiducia dei cittadini. La percezione è che le decisioni siano lontane, tecniche e poco comprensibili, anche quando incidono direttamente sulla vita quotidiana.
Con il PNRR, lo Stato ha rafforzato temporaneamente il proprio ruolo di coordinamento. I fondi europei hanno imposto scadenze, obiettivi misurabili e una forte centralizzazione delle decisioni strategiche.
Questo ha accelerato alcuni processi, ma ha anche messo in luce le difficoltà strutturali del sistema italiano, soprattutto nella capacità amministrativa di Regioni e Comuni. Il rischio è che, senza riforme strutturali, la spinta del PNRR resti un’eccezione e non una regola.
La risposta, per quanto possa sembrare deludente, è che decidono tutti, ma nessuno da solo. L’Europa fissa la direzione, lo Stato costruisce il quadro normativo, le Regioni e gli enti locali attuano le politiche sul territorio.
Questo sistema può funzionare solo se c’è coordinamento, chiarezza e responsabilità condivisa. In assenza di questi elementi, la transizione ecologica rischia di rimanere bloccata tra livelli istituzionali che si rimpallano colpe e competenze.
Capire chi decide le politiche ambientali significa capire dove intervenire, chi chiedere conto e come migliorare le decisioni. La sostenibilità non è solo una questione tecnica, ma un problema di governance, chiarezza e capacità istituzionale.
Senza una catena decisionale comprensibile e coordinata, anche le migliori politiche rischiano di fallire. Ed è proprio qui che si gioca una parte decisiva del futuro ambientale italiano.